Si parla spesso a sproposito di razze umane ma la ricerca scientifica sul genoma evidenzia che non esistano differenze
Tutti i bambini sono differenti, non c’è dubbio. Cambiano le conformazioni del cranio e dello scheletro, le stature e il diverso peso corporeo. Sono diversi i colori dei capelli e della pelle, e sono diverse le nostre cellule, e le proteine che le fanno funzionare e moltiplicare. Con il passare degli anni gli anni si capisce chi corre maggiormente il rischio di ammalarsi, di contrarre infezioni o di sviluppare malattie ereditarie. Non tutti risponderanno allo stesso modo alle stesse medicine, e si evidenzierà una diversa tendenza a guarire o a manifestare disturbi collaterali. La ragione di tutto ciò è che molte di queste caratteristiche biologiche individuali che permangono per tutta la vita sono codificate nei geni che i genitori trasmettono alla nascita ai figli, in una frazione del DNA pari solo solo all’1% del totale. Il peso, la statura, il colore dei capelli e della pelle si modificheranno invece con l’età, la dieta, l’esercizio fisico o l’esposizione al sole, perché sono una serie di fattori ambientali che nulla hanno a che fare con la trasmissione ereditaria attraverso i geni. Diversità e differenze fra le popolazioni umane hanno nei secoli alimentato la discussione e le polemiche sul concetto di razza. Il primo studio scientifico sulla biodiversità umana si fa risalire al naturalista svedese Linneo che, nel Settecento, nel suo Systema naturae, propose di suddividere l’umanità in quattro razze, associandole ai quattro classici elementi: aria, acqua, terra, fuoco. Da allora, a ogni nuova scoperta di popolazioni sconosciute, il catalogo delle razze si arricchì costantemente, arrivando a contarne fino a duecento. Alla metà del Novecento, in maniera tautologica si sosteneva che la distinzione in razze differenti fosse spiegabile proprio a causa delle differenze fenotipiche riscontrabili nella popolazione umana, finché nel 1963 l’antropologo americano Frank Livingstone pubblicò un suo fondamentale articolo in cui, pur riconoscendo l’estrema variabilità dei diversi popoli che abitano la terra, sosteneva la non-esistenza delle razze umane e che le differenze evidenti, sono distribuite in modo continuo nello spazio, in maniera che le caratteristiche di ognuna di esse si sovrappongono e sfumano gradualmente in quelle delle popolazioni vicine. Un recente articolo pubblicato su Science Advances ha ricostruito, a partire dal DNA di reperti ossei, le caratteristiche genetiche degli Etruschi che sono risultate simili a quelle dei popoli vicini e sarebbero un’eredità di ondate migratorie arrivate in Europa in epoca preistorica. La biodiversità umana nello spazio geografico e nel tempo storico, è diventata il nuovo paradigma scientifico che ha sostituito quello razziale. Oggi, gli studi sul genoma umano, ci dicono che Livingstone aveva ragione: siamo tutti diversi, ma nel DNA umano non si riscontrano differenze così nette in grado di tracciare confini definiti fra gruppi di individui, fra razze o sottospecie. I gruppi sanguigni, il colore della pelle, e anche la tendenza a contrarre malattie, a guarire coi farmaci o a essere intolleranti la lattosio, dipendono da varianti geniche presenti in ogni popolazione e in tutti i continenti. Se esistono differenze fra noi si può parlare al massimo di sfumature, all’interno di una variabilità genetica continua nello spazio geografico che ammonta a circa il 12%. Tutto il DNA presente nel genoma di un individuo conta oltre 6 miliardi di nucleotidi ma solo una piccola parte, circa l’1%, di questi loro è variabile, mentre nel restante 99% siamo tutti uguali. È in questa piccola frazione che sono trascritti i nostri gruppi sanguigni, la maggiore o minore predisposizione a malattie come diabete, il cancro e i disturbi cardiocircolatori, e la nostra risposta ai farmaci. Nel nostro DNA c’è molto di più: qualcosa che arriva dal passato, trasmessoci dai nostri genitori, dai nostri nonni, bisnonni, e ancor più indietro nel tempo. Decifrando il DNA si capisce la storia dell’umanità che inizia all’incirca 60 mila anni fa, quando un piccolo gruppo di individui nomadi dall’Africa iniziò a muoversi diffondendosi in ogni continente fino a colonizzare tutto il pianeta. Avevano come noi la fronte verticale e il cranio corto, erano diversi dagli uomini di Neandertal che popolavano l’Europa e dall’Homo Erectus asiatico, che presentavano crani più lunghi e più schiacciati, e una struttura fisica più tozza e robusta. Sarebbe bene sempre ricordare che come discendenti di questo processo migratorio, in un tempo relativamente breve, abbiamo certamente prevalso sulle altre forme umane, ma non c’è stato il tempo necessario perché si accumulassero significative differenze genetiche. In sintesi, possiamo apparire diversi ma le variabili genetiche fra tutti i popoli che abitano la terra sono molto poche.