Un libro scritto dal direttore della Pelle Baby ci parla dei pericoli legati alla rapida digitalizzazione degli ultimi anni
Da diversi anni ci s’interroga sugli effetti del digitale sul neurosviluppo infantile. Sette preadolescenti su dieci, di età compresa tra 8 e 13 anni, dispongono di strumenti informatici. Ogni giorno circa un quarto di loro accede alla rete internet senza limitazioni temporali e ben uno su sei riferisce di poterlo fare senza alcun controllo parentale. Lo smartphone a uso personale esclusivo è il device più utilizzato, seguito da tablet, playstation e computer. La stragrande maggioranza usa gli strumenti informatici per ricerche scolastiche, scaricare musica e videogiochi, chattare e vedere video. Solo il 50% usa lo smartphone anche per telefonare. L’età di primo utilizzo, che era in media di 9 anni per i maschi e di 10 anni per le femmine nel 2016, ora è scesa a meno di 8 anni. Prima della rivoluzione digitale, i giochi dei bambini erano ricchi di dettagli sensoriali: coloratissimi, morbidi, smontabili e facevano rumore per stimolare curiosità, immaginazione, creatività. Oggi, già dall’infanzia, i bambini insieme a camminare e parlare imparano a pigiare i tasti del display e a utilizzare i media digitali, anche facendo a meno della guida degli adulti. Nel passato, qualsiasi processo di apprendimento si fondava su tecniche d’insegnamento fondate sull’imitazione e sull’obbligo di memorizzare. Nel mondo digitale, invece, non c’è bisogno di proporre istruzioni, perché s’apprende immediatamente qual è il tasto giusto e quello sbagliato che non permette di andare avanti. Nella logica infantile ciò che funziona ha un senso, altrimenti, è inutile e non efficace per il sistema che hanno in mano. La familiarità precoce con i nuovi strumenti tecnologici necessita di appropriate tempistiche, e pochi genitori sanno che un uso inappropriato può minare la salute psicofisica dei loro figli, soprattutto in particolari epoche dello sviluppo. Se in famiglia si evidenziano già segni di fatica e stress legati agli strumenti digitali, i figli tendono a risentirne e, a partire dalla scuola, i loro primi approcci ed esperienze con l’informatica potrebbero influenzare lo sviluppo futuro di un’ansia generalizzata. Sottovalutare l’aumento dei disturbi ossessivo – compulsivi, dell’umore e della depressione giovanile, riferibili alle tecnologie digitali, già registrati negli Stati Uniti e in molti paesi europei, è un errore particolarmente grave. Un capitolo a parte merita la tecnologia applicata alla scuola. Durante il lockdown è stato imposto il ricorso universale alla Didattica a Distanza (DAD), per qualsiasi età e corso di studio. I problemi logistici denunciati sono stati soprattutto nel campo della connettività, della capacità degli istituti e dei professori di utilizzare gli strumenti digitali, le difficoltà per le famiglie meno abbienti. All’inizio, in pochi si sono posti, invece, il quesito su come avrebbero reagito gli allievi a questa obbligata trasformazione del loro apprendimento. Gli oggetti digitali hanno un posto sempre più rilevante nella crescita e nello sviluppo delle capacità dei bambini, quindi tutto è sembrato accettabile. Il Ministero dell’Istruzione italiano aveva già introdotto sperimentalmente l’uso dei tablet per motivazioni economiche – un libro di testo in formato e-book è meno costoso di un testo cartaceo, e questo si pensa possa venire incontro alle esigenze di molte famiglie – ma nell’emergenza il MIUR ha ulteriormente promosso il cellulare a strumento didattico. Ciò ha reso possibile lo svolgimento a distanza delle lezioni, che però ha mostrato i suoi rischi e i suoi limiti. Uno dei principali riguarda la salute della colonna vertebrale messa a dura prova dalle lunghe ore passate davanti al PC. Più lenti, depressi e vulnerabili, i ragazzi escono meno perché la loro vita sociale è sul cellulare: questo il ritratto della generazione dello smartphone. Negli Stati Uniti li chiamano iGen, ma le loro caratteristiche valgono anche per i ragazzi di casa nostra. I teenager sono più sedentari e grassi, a loro agio in casa, a letto. Unica nota positiva: sono più al sicuro da alcol e incidenti perché meno interessati a uscire a tarda sera. Alcuni esperti, del tutto inascoltati, si sono chiesti se con l’educazione a distanza non si siano favoriti gli alunni con maggiore predisposizione a sviluppare un pensiero logico matematico, a scapito dello sviluppo e del funzionamento della parola, del linguaggio, della creatività. Non si può invocare l’assenza di una sufficiente letteratura scientifica sugli effetti che gli strumenti digitali possono avere sullo sviluppo cognitivo dei bambini per continuare a spingere sull’introduzione dei computer e dell’informatica nella scuola. In particolare, nella fascia d’età fra i tre e i sette anni, un periodo che comprende parte dell’asilo nido, la scuola materna e gli inizi della scuola elementare. Bisogna invece rivedere la convinzione che avviare i bambini all’uso del computer nei primi anni della loro vita sia importante per il loro sviluppo intellettivo e che l’alfabetizzazione informatica possa precedere quella scolastica e perfino l’acquisizione del linguaggio. La presenza del computer in famiglia e nelle scuole dell’infanzia non deve, inoltre, rappresentare un segnale di modernità e un arricchimento della proposta educativa, perché si rischia di crea artificiose differenze fra le scuole e conseguenti discriminazioni sociali. Gli istituti scolastici di periferia, quelli delle aree più povere e problematiche del nostro Paese, per non restare tagliati dal cosiddetto progresso tecnologico, si sono sentite costrette a rivendicare l’acquisto dei computer, allo scopo di adeguarsi agli standard e all’obbligo d’informatizzazione della società. È pur vero che un’uniforme dotazione di sistemi digitali in tempi di lockdown si è rivelata utilissima, ma in precedenza era stata ricercata più su una base ideologica che strettamente pedagogica. Questa scelta è anche in linea con la direttiva europea che sollecita l’alfabetizzazione informatica di massa per far partecipare le nuove generazioni ai benefici della globalizzazione e della new economy, ma andrebbero meglio definite le modalità con cui l’informatica va integrata nella pratica educativa. L’utilizzo massiccio dei video stimola maggiormente, e più precocemente, lo sviluppo dell’area cerebrale Visiva 3 rispetto all’area V2 necessaria per leggere, agendo sulla differenziazione delle funzioni di codificazione percettive del sistema nervoso centrale. Sperimentare l’uso del computer fra i bambini che frequentano l’asilo nido, fino ai tre anni, provoca ancor più perplessità. Dal punto di vista dello sviluppo cognitivo il bambino vive tramite i suoi cinque sensi l’interazione diretta con l’ambiente fisico e sociale circostante, ma nell’esperienza digitale il rapporto senso-motorio si verifica attraverso una parziale intermediazione virtuale. In questo modo le predisposizioni innate, le precompetenze che gli consentono di strutturare la sua relazione con il reale, se poco mobilitate, rischiano di indebolirsi, finanche di spegnersi. Attivare il cervello dei bambini tra i 5-6 anni, con immagini multimediali di oggetti e in rapido movimento, sfavorisce l’uso delle aree che svolgono la funzione di riconoscimento delle lettere, rendendo la decodifica difficile, imprecisa. Un fenomeno di perdita progressiva che avviene anche a livello della rete neuronale. L’ambiente digitale compensa questa ridotta abilità, proponendo strumenti compensativi e sostitutivi, utilizzando la trasmissione delle informazioni per immagini. Le interfacce grafiche facilitano l’apprendimento rispetto ai testi scritti poiché impiegano una comunicazione attenzionale, ma rappresentano un ritorno all’alfabetizzazione visiva prevalente nelle forme antiche degli alfabeti pittografici, favorendo lo sviluppo di una buona memoria e di un pensiero intuitivo-associativo, che aiutano soprattutto a decodificare in particolare i messaggi visivi. Ciò spiega perché leggere un testo è diventato più difficile, quasi innaturale per i bambini più digitali, le cui strutture cerebrali ap-paiono meno pronte per la lettura. Attenzione massima, quindi, a promuovere nel futuro l’adozione della realtà virtuale immersiva (RVI), una tecnologia ancor più sofisticata, non ancora molto diffusa nella scuola italiana, con cui gli alunni possono interagire attraverso periferiche che attivano tutti i loro sensi. La preoccupazione è che il futuro dell’istruzione scolastica possa passare anche da qui, mescolando la percezione di ciò che circonda con immagini e ologrammi che forniscono informazioni aggiuntive, selezionate dai programmatori e generate al computer. In sintesi, nonostante le ottime intenzioni, l’informatizzazione della scuola sta ponendo domande finora trascurate o lasciate in sospeso, e soprattutto molti dubbi sui rischi creati nella sfera dell’educazione e della formazione. Tanto più semplificati e interattivi sono gli e-book, tanto meno lo studente apprende. Se ha bisogno di trovare delle informazioni, non le cerca all’interno di un testo, ma gli basta un link per raggiungere senza sforzo l’obiettivo. Non da sottovalutare inoltre che molte famiglie, inconsapevoli degli effetti provocati, al ritorno a casa, pongono i bambini di fronte al PC o allo smartphone per vedere video e programmi che catturano l’attenzione per lunghi periodi, rappresentando delle novità molto vivaci. I genitori pensano di tenerli occupati, di gestirli disciplinando la spontanea tendenza alla dispersione, l’irrequietezza, l’incapacità di stare fermi, favorendo precocemente la loro concentrazione. Ignorano che l’esplorazione autonoma spontanea, il vagare alla ricerca di stimoli nei vari ambienti della casa, il toccare e smontare cose, hanno una valenza molto positiva per lo sviluppo cognitivo. Avviene così che il bambino si concentra passivamente sulla visione multimediale offerta dai device digitali, mentre nel mondo reale, in maniera più attiva e indipendente, potrebbe usare curiosità e sensi. Tanto meglio – viene da dire – e invece no. Nel processo d’interiorizzazione multimediale, l’ipoattività può comportare il prendere le distanze, l’isolarsi, la rinuncia anche se parziale all’attività senso-motoria fondamentale per lo sviluppo cognitivo. Conoscere è un atto che non può prescindere dal richiamo alla memoria, alle esperienze passate, ed è favorito dal meccanismo dell’attenzione. Quando un bambino è attento, percepisce; quando presta attenzione e percepisce, impara e ricorda. Ciò spiega perché lo studio richiede un persistente sforzo volontario di concentrazione, che contrasta una connaturata tendenza alla distrazione. Le tecnologie digitali agiscono al contrario, e tramite un forte controllo dell’attenzione passiva rischiano di depotenziare a livello individuale e collettivo la capacità di apprendere e memorizzare. Ecco uno spunto di riflessione ulteriore per chi si occupa di programmi pedagogici. Per imparare a leggere e a scrivere l’essere umano ha sempre dovuto impegnarsi per lunghi anni in attività scolastiche percepite come faticose, per molte ore al giorno. Invece, le abilità digitali, legate all’uso di tecnologie, si apprendono velocemente, facilmente, e danno un accesso alla conoscenza in rete diretto, anche in età precoce. L’apprendimento tramite device digitali favorisce però il quasi abbandono dei libri tradizionali, di carta e penna. L’elaborazione dei dati degli studi PISA (Programme for International Student Assessment), indagine internazionale promossa dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa che ogni tre anni misura le competenze degli studenti quindicenni dei Paesi aderenti, e i loro rendimento scolastico dimostra che l’uso del computer per lunghi periodi determina il peggioramento delle prestazioni scolastiche sia di calcolo sia di lettura. Con la digitalizzazione dei libri si è visto che tanto più i giovani usano i motori di ricerca per le informazioni, meno buoni sono i loro processi di apprendimento e memorizzazione. A parità di tempo a disposizione, gli studenti che scrivono ancora gli appunti con la penna ottengono punteggi più alti nel test di fine lezione rispetto a chi utilizza la tastiera di uno strumento digitale. Senza dimenticare che la tecnologia usata a scuola e a distanza, danneggia di più gli studenti con un background sociale e capacità di apprendimento già più bassi. In conclusione, le istituzioni scolastiche, in nome della modernità, non dovrebbero accettare, in maniera acritica, quel determinismo tecnologico che prospetta un ruolo primario, se non unico, alle nuove tecnologie per il raggiungimento di una società più avanzata e più competitiva a livello internazionale. I milioni di euro spesi per acquistare i computer e i tablet per le scuole non sono l’unico investimento da fare per eliminare le diseguaglianze e permettere un cambiamento verso un’istruzione più valida e un mondo più giusto. Prima o poi, infatti, saremo costretti a fare i conti con questa info-utopia.