Entro il 2030 il 60% della popolazione mondiale vivrà nelle città, passando dai 220 milioni del 1900 a circa 5 miliardi. Abitare in città è sicuramente più comodo: il lavoro è a portata di mano, i trasporti sono più frequenti, ci sono più negozi, scuole e servizi a pochi minuti da casa. è opinione diffusa nella comunità scientifica, però, che vivere nelle metropoli possa aumentare il rischio di ammalarsi e di sviluppare, in particolare, patologie non trasmissibili e croniche, in primis, patologie respiratorie, allergie e diabete alimentare: un’epidemia che affligge maggiormente chi risiede in una città (oltre il 60%), e non solo in Italia. In Cina gli abitanti delle grandi metropoli presentano livelli di obesità 7 volte maggiori di chi risiede nelle zone rurali, mentre negli indiani che si trasferiscono in città, in una decina d’anni aumenta dell’11% la percentuale di grasso corporeo. Sotto accusa sono le cattive abitudini alimentari, l’obesità e la sedentarietà. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’obesità sarebbe alla base del 58% dei casi di diabete, del 21% delle patologie coronariche, dall’8 al 42% di una serie di tumori e la quinta causa della mortalità globale. Il tema diventa ancor più attuale se si parla di obesità infantile, e del nesso tra luogo di vita, l’assetto urbano, la mobilità, l’organizzazione sociale, l’attività sportiva e la reale possibilità per i bambini di adottare uno stile di vita sano. Accanto alla forte componente genetica, il rischio per i più giovani di sviluppare patologie legate all’urbanizzazione, è accentuato da fenomeni quali l’industrializzazione, la meccanizzazione, lo stress psico-fisico, la ricerca di una facile soddisfazione attraverso alimenti ad elevato tenore calorico, la grande pressione pubblicitaria nei confronti di prodotti alimentari, le diete che inducono modificazioni della flora batterica dell’intestino, un’azione negativa sui meccanismi endocrini di controllo della glicemia. L’aumento dei livelli di stress e del rischio di soffrire di disturbi mentali nelle popolazioni cittadine è ormai accertato, e ciò ha effetti potenzialmente negativi su cuore e polmoni e potrebbe addirittura compromettere lo sviluppo cerebrale. Fra le cause vanno sicuramente annoverati anche i rumori, il sovraffollamento e l’inquinamento, oltre alle difficili interazioni sociali tipiche delle grandi città. Recentemente, un gruppo di psicologi inglesi ha provato a dimostrare l’esistenza di un legame tra la vita di città e l’alterazione di alcuni circuiti cerebrali che regolano la salute mentale e l’insorgere dell’ansia, analizzando oltre 2000 bambini cresciuti in ambienti urbani e suburbani. Lo studio ha rivelato che, all’età di 12 anni, i bambini cresciuti in città hanno il doppio delle probabilità di sviluppare delle psicosi. La causa, ancora una volta, va ricercata nelle relazioni sociali che si instaurano nelle città, nella mancanza di coesione sociale e nel numero più elevato di attività criminali che maggiormente vi so verificano. Senza escludere che a influire potrebbe essere anche l’inquinamento atmosferico, in particolare due inquinanti atmosferici comuni nelle nostre città, il diossido di azoto e il particolato fine, il PM 2.5, che provoca un processo di infiammazione nei polmoni, nel sangue e negli altri organi esposti come il sistema nervoso centrale e, non ultima, la pelle. Va detto che i recenti periodi di lockdown non hanno aiuto a migliorare la qualità della vita dei nostri bambini, obbligati a stare per ore in casa seduti davanti al computer per seguire le lezioni a distanza, impossibilitati ad andare in piscina e in palestra, o anche più semplicemente a giocare in un parco pubblico: attività che oltre al benessere fisico riducono i livelli di stress e hanno effetti benefici sul sistema nervoso. Fra le conseguenze, più o meno permanenti, della pandemia da Covid19 andrebbero quindi sommati i danni per la salute che si stanno determinando nelle popolazioni infantili, i cui sintomi si manifesteranno solo fra alcuni anni.
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