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Come si spiega l’effetto placebo?

Sono oltre otto milioni gli italiani che ogni anno si affidano alle cosiddette medicine alternative o non convenzionali. E molti genitori per curare i loro figli le preferiscono ai classici trattamenti farmacologici. Un fenomeno che ha via via assunto dimensioni sempre più importanti sino a poter essere considerato a rischio. Del resto i dati non sembrano stupire più di tanto. Basta farsi un giro sui principali social network, o sfogliare qualche sito e rivista generalista dedicati al benessere per vedere quanto siano diffuse terapie e discipline non invasive, prime fra tutte l’omeopatia, la fitoterapia e i Fiori di Bach ma anche numerose altre discipline cosiddette “olistiche” che intendono la salute come risultante di un più generale benessere psicofisico, e la medicina come cura dell’uomo e non della malattia. Ma questi, pur nobili principi, non convincono tutta la classe medica che, per la maggior parte, considera il ricorso alle medicine non convenzionali, specie per i bambini, come una scelta poco consapevole e di natura fideistica. E che di fronte ai risultati aneddotici che vengono portati a conferma della validità delle metodiche più antiche e tradizionali, dall’agopuntura all’ayurveda, non esita a spiegarli facendo riferimento all’effetto placebo. Ovvero una guarigione che dipenderebbe principalmente dalla suggestionabilità dei pazienti, dal carisma del medico, dal tipo di malattia (specie se psicosomatica), dal colore della pillola, e persino dal costo del trattamento o della medicina. In conclusione, per molti illustri scienziati, le medicine non convenzionali, nell’insieme, avrebbero come denominatore comune proprio l’uso terapeutico, più o meno inconsapevole, dell’effetto placebo. Un effetto che sarebbe massimizzato dall’approccio personalizzato, fonte di una forte empatia, che si realizza nell’esame rilassato e completo del malato e non solo dei suoi sintomi, una relazione medico-paziente che la medicina ufficiale ha preso a trascurare favorendo rapporti frettolosi, asettici e impersonali.

Insomma: maggiore interesse verso il paziente si tradurrebbe in una migliore risposta fisica e psicologica da parte di quest’ultimo. L’esistenza dell’effetto placebo è peraltro innegabile, specie nei bambini. Lo sanno bene le mamme che curano il mal di pancia del proprio bambino con un massaggio o una coccola, o i papà che con una bacio o un cerotto sulla ferita provano a interrompere il pianto del proprio figliolo. Da anni nei laboratori si cerca di chiarire come faccia la psiche a influire in maniera così determinante sul corpo. Basti pensare per rendersi conto di come l’umore agisca sulle difese immunitarie a quante volte la tristezza per un lutto o una frustrazione si possano accompagnare una diminuita resistenza alle malattie. Si è scoperto così che alla base dei risultati legati all’effetto placebo ci sarebbe il rilascio di endorfine, mediatori chimici in grado di sopprimere il dolore, ma non si è riusciti ancora a spiegare come possa un farmaco omeopatico, che viene somministrato in dosi infinitesimali, stimolare e a curare i sintomi di cui il paziente soffre. E lo stesso vale per tanti prodotti erboristici e naturali che non sono stati studiati secondo il metodo scientifico del doppio cieco verso il placebo. Un’altra spiegazione potrebbe essere ricercata nei geni. Secondo un articolo pubblicato da tre ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center della Harvard Universiry, su “Trends in Molecular Medicine”, diversi studi dimostrerebbero che l’effetto placebo sia in realtà mediato da numerose vie di segnalazione nel cervello. Fino adesso però era stata dimostrata chiaramente soltanto la correlazione fra una maggiore sensibilità all’effetto placebo in situazioni di anestesia locale e una particolare variante (polimorfismo di singolo nucleotide, o SNP) del gene COMT, che produce un enzima, la catecol-O-metiltrasferasi, che interviene nel metabolismo della dopamina e di altre catecolamine. Nel loro studio però, Kathryn T. Hall e colleghi hanno evidenziato come dalla letteratura scientifica si possa evincere che esisterebbero almeno altri dieci SNP a carico di altrettanti geni che appaiono coinvolti nell’effetto placebo in molte e differenti situazioni cliniche.

La scoperta, oltre ad avere importanza per quei pazienti che “geneticamente” sarebbero predisposti all’effetto placebo e aprire il campo a nuove prospettive di cura, magari meno “scientifiche”, in luogo di sistemi di cura più blandi, ha potenziali ricadute anche per quanto riguada la definizione dei protocolli sperimentali per stabilire l’efficacia dei farmaci. Come è ben noto infatti, quando si deve attestare l’efficacia di alcune formulazioni viene utilizzato un tipo di approccio definito in doppio cieco: ossia a un campione di persone che presentano la stessa patologia viene somministrato il farmaco da sperimentare mentra a un altro campione un finto farmaco definito appunto placebo. Le persone scelte per far parte dei due gruppi sono assegnate casualmente e non sono a conoscenza di quale delle due formulazioni si stanno servendo. Alla fine del periodo di osservazione, in base alle risposte fisiche degli individui dei due gruppi è possibile stilare gli effetti del farmaco, determinarne l’efficacia e le eventuali controindicazioni. Conoscere quali geni sono predisposti all’effetto placebo garantirebbe una migliore valutazione dei farmaci sperimentati. Senza contare che, sapendo che alcuni individui possono essere curati con farmaci placebo il medico dovrebbe forse prima di ogni cura effettuare un test per valutare il grado di “placebità” del paziente? C’è inoltre ancora aperto il capitolo del cosiddetto effetto nocebo: dovuto al fatto che il cervello può influenzare la percezione del dolore in senso peggiorativo (dal latino: nocere ovvero far male). Esempi più noti sono quelli legati allo stress sul cuore o sulla depressione, ma anche l’isolamento e la mancanza di relazioni sociali. Si deve ancora capire il modo in cui alcune aree cerebrali influenzino l’andamento delle malattie e del dolore, trasformando un lieve fastidio in una pena quasi insopportabile. Capire questi meccanismi aiuterà a migliorere l’assistenza al malato, ma per adesso è difficile che, nonostante le evidenze, la classe medica possa accettare l’idea del placebo come farmaco, specie nei bambini in cui è più difficile proporre uno studio in doppio cieco. Quello che la scienza potrà e dovrà fare, è cercare però di smascherare chi abusa della credulità delle persone più semplici. Perché è triste riconoscerlo, ma anche le parole e i sortilegi di maghi e stregoni, su alcuni possono avere un effetto placebo, ed è proprio ciò su cui questi individui contano in completa malafede, proponendo a genitori preoccupati interventi e pozioni senza alcun valore o efficacia.

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Tag:, , , Last modified: Luglio 7, 2020
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