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Violenza e cyberbullismo tra i banchi di scuola

Psicologia

Gli atti di bullismo sono equiparabili allo stalking. è quanto stabilisce la proposta di legge che il 29 gennaio scorso è stata sottoposta al voto della Camera con esito favorevole. Si tratta di un testo di otto articoli collegato a un’altra legge approvata nel 2017 (n. 71) contro il cosiddetto cyberbullismo, che si incarica anche di promuovere attività preventive, educative e ri-educative a tutela di tutti i minori coinvolti nel fenomeno, siano essi vittime o responsabili di illeciti, senza distinzione di età nell’ambito delle istituzioni scolastiche. Oltre all’equiparazione delle diverse forme di bullismo allo stalking, la legge ora all’esame del Senato, istituisce anche un numero verde e una applicazione per fornire assistenza psicologica e giuridica alle vittime di comportamenti offensivi e denigratori ripetuti nel tempo. Ma quando si configura esattamente il bullismo? Adottando la definizione di Dan Olweus, lo psicologo svedese che negli anni ‘70 coniò il termine bullismo: “Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni”. I risultati delle sue ricerche portarono Olweus alla formulazione di un programma di antibullismo diffusamente adottato nelle scuole dei paesi scandinavi. Allo psicologo svedese si deve anche l’identificazione dei primi criteri utili per distinguere il bullismo dagli altri possibili comportamenti tipici del processo di maturazione degli individui, come le ragazzate, gli scherzi e i giochi pesanti tra bambini e adolescenti. In sostanza, per Olweus, le cause alla base del bullismo sono varie e riconducibili a una serie di fattori sia individuali che di gruppo, tra cui si annoverano il temperamento del bambino, l’educazione famigliare, gli stereotipi veicolati dai mass media e altre variabili connesse all’ambito scolastico e al contesto sociale. Oggi molto, quasi tutto, è cambiato rispetto agli anni ‘70, e con la rivoluzione tecnologica degli smartphone anche il bullismo è cambiato: non è più solamente fisico e perpetrato “dal vivo”, ma si estende anche ad altri canali, sfociando in forme più subdole che finiscono per colpire anche la sfera privata della vittima, propagandosi come un morbo su web, social e chat.
La creazione di gruppi sui vari social network (facebook, whatsapp, telegram, tra i più noti) nei quali si inviano messaggi intimidatori, e si diffondono video o immagini offensive e lesive nei confronti della vittima, costituisce una forma nuova di violenza che priva il bambino o il ragazzo oggetto di scherno di serenità e autostima visto che egli può essere raggiunto dalle espressioni denigratorie e da sentimenti di odio anche se rintanato in casa. Si tratta di una forma di violenza psicologica più dannosa e dalle ripercussioni potenzialmente più serie rispetto al bullismo tout court, perché implica la distruzione della reputazione “pubblica” della vittima, totalmente incapace di difendersi. I contatti che il cyberbullo riesce raggiungere quando immette in rete un contenuto sono ben più ampi rispetto al gruppetto di persone che assiste all’atto di bullismo vecchia maniera, in quanto, grazie alla sua natura mediatica e digitale, si superano i confini delle mura scolastiche permeando l’universo della rete. è lo stesso meccanismo che opera nel sexting, un’altra pratica odiosa afferente alla sfera del “revenge porn”, che consiste nella diffusione non autorizzata a terzi di immagini e/o video a sfondo sessuale che ritraggono in genere uno dei due membri di una coppia (quasi sempre le donne). Oggi, fenomeni quali bullismo, cyberbullismo, sexting e tutta un’ampia gamma di comportamenti deprecabili connessi al digitale, rappresentano una problematica piuttosto diffusa tra i nostri ragazzi cui, va detto, corrisponde anche un più generalizzato aumento della violenza in generale nelle scuole, non necessariamente limitata ai rapporti interpersonali tra studenti. Basti pensare a quanto accaduto nel 2018 in un istituto di Lucca, dove alcuni ragazzi sono stati immortalati dallo smartphone di un compagno mentre minacciavano verbalmente e fisicamente un professore tra le risate generali della classe. O anche alla vicenda che, sempre nello stesso anno, ha visto un’insegnante di prima superiore essere legata alla sedia e presa a calci dagli stessi alunni. Episodi che generano una diffusa indignazione ma anche una forte preoccupazione legata non solo alle azioni compiute, ma anche alla spettacolarizzazione che se ne fa attraverso la ripresa. Se aiuta a conoscere i fatti e a perseguirli la diffusione in rete, è allarmante che spesso le riprese vengano fatte per fini ludici, addirittura per essere poi condivise sui social dagli stessi bulli come motivo di vanto. Ma da dove nasce questa necessità di filmare tutto, persino gli abusi e i comportamenti sbagliati? Secondo Giuseppe Lavenia, psicologo e psicoterapeuta, Presidente dell’Associazione Nazionale Di.Te., tale bisogno: “ha a che fare con la necessità di mantenere sempre alti i livelli di eccitazione. Ci sono dei meccanismi che si innescano in automatico in chi ha questi bisogni: si dissociano le emozioni. Rischiamo di non conoscere più il nostro corpo”. Lavenia denuncia che la società odierna si sta abituando a interagire unicamente per mezzo dei dispositivi digitali: “la tecnologia, se per certi versi facilita e migliora la nostra vita, per altri tende a dissociare le emozioni e i sentimenti che si provano in determinate circostanze, senza però fornirci i mezzi adatti per poterle esternare”. Ecco quindi che questa difficoltà può condurre a episodi estremi di rabbia in cui il nostro corpo perde di consapevolezza, in quanto non è in grado di contenere coscientemente ciò che sente dentro”. Il tema è piuttosto drammatico e sfocia nel campo della dipendenza dalle nuove tecnologie sperimentata da persone di tutte le età, a partire dai genitori. Questi ultimi infatti sarebbero chiamati all’importante ruolo di accompagnare i figli nel percorso di crescita e a insegnare loro a usare gli strumenti tecnologici, se non fosse che spesso sono i primi a esserne soggiogati. Tornando al bullismo e alla sua diffusione nelle scuole italiane, c’è chi obietterà che i violenti, così come i prepotenti e i bulli sono sempre esistiti e che qualche mela marcia negli ambienti che raccolgono multitudini di persone è fisiologica. Tuttavia, esiste una differenza tra le modalità con cui certe cose avvengono oggi e come invece si verificavano in passato. Partiamo da un dato di fatto: fino a qualche anno fa non esistevano né gli smartphone né le piattaforme digitali, e di conseguenza, neanche la cultura della cosiddetta “condivisione social”. Inoltre, è presumibile che nessuno in passato avrebbe sentito la necessità di immortalare scene di bullismo o violenza, men che meno i diretti interessati. Perché, verrebbe da chiedersi, creare una prova che inchioda alle proprie responsabilità? Oggi invece, la condivisione è diventata una sorta di mania e scandisce ogni momento della nostra giornata. Non stupisce perciò che un gruppo di adolescenti possa arrivare a pensare che sia divertente essere filmati e successivamente “ammirati” in rete mentre si insulta, umilia e aggredisce un docente davanti alla classe, specie se questi non è in grado di reagire. Bisogna anche dire però che dinamiche del genere sono andate alimentandosi anche a causa dalla messa in discussione, se non denigrazione, del ruolo e dell’autorità dell’insegnante da parte di molti genitori. Troppi i casi di aggressioni nei confronti dei docenti da parte dei genitori, schierati a priori “in difesa” dei propri figli nelle controversie scolastiche. Un tempo invece funzionava al contrario: erano i figli a prenderle dai genitori, magari anche incolpevolmente, quando arrivava la lamentela del maestro. Lungi dall’auspicarci un ritorno a certe “dinamiche educative” sbagliate del passato, risulta chiaro come alcuni capisaldi del passato si siano oggi ribaltati. Dunque, si stava meglio quando si stava peggio? Probabilmente no, ma andrebbe assimilato il concetto che non sempre al progresso tecnologico corrisponde quello sociale e psicologico.

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