Identificata nel 1936, la vitamina “del sole” agisce come un ormone influendo non solo sulla salute delle ossa
Durante l’esame di biochimica il professore chiede allo studente: la vitamina D è un ormone? Il candidato sembra trasalire, colpito dalla ambiguità della domanda e pensa quale sia il trabocchetto che gli stanno proponendo. Nonostante il suo nome, infatti, la vitamina D presenta una struttura molto simile a quella degli ormoni e soprattutto agisce come tale. Per questa sua caratteristica, molti studiosi hanno iniziato a utilizzare il termine pre ormone, soprattutto in riferimento alla sua capacità di regolare il metabolismo osseo. A differenza degli ormoni, poi, che vengono prodotti dalle ghiandole endrocrine, il corpo umano riesce a sintetizzarla solo parzialmente mentre necessita di una fonte esterna per ottenerla in buona quantità, esattamente come avviene con altre vitamine. Non avendo ancora una risposta, per superare il suo momento d’imbarazzo e dimostrare di essere preparato, con voce sicura inizia a ripercorrere la storia di questa preziosa molecola. La prima ipotesi, o meglio intuizione sulla sua esistenza, va fatta risalire, probabilmente, alla fine dell’800. è in quel periodo, infatti, che lo scienziato Niels Finsen dimostrò l’efficacia della elioterapia nel trattamento del Lupus vulgaris, una condizione causata dal Mycobacterium tuberculosis che coinvolge soprattutto la pelle, e ipotizzò come causa di questa patologia la carenza presente in alcuni individui di un particolare ricettore dei raggi del sole. Una teoria che si rivelò fondamentale per il proseguio delle ricerche, tant’è che venne premiata con il Nobel nel 1903. Qualche anno più tardi, e precisamente nel 1919, il pediatra tedesco Kurt Huldschinsky, osservò l’effetto terapeutico che l’esposizione ai raggi ultravioletti aveva sui bambini affetti da rachitismo, riprendendo in parte le evidenze scientifiche già analizzate da Owen e Palm sin dal 1890, e che avevano evidenziato come i bambini del nord della Gran Bretagna e di alcune regioni della Cina, meno esposte al sole, avessero una predisposizione a questo tipo di malattia. La molecola fu identificata nel 1922 dal biochimico americano Elmer Varner Mc Collum, che le diede l’attuale nome, avendone accertata la sua liposulibilità. Sarà però solo nel 1931 che la vitamina D venne riconosciuta come un elemento nutrizionale essenziale mentre nel 1932 fu descritta la sua struttura chimica, che evidenziò che in realtà si trattava di uno steroide. L’interesse del mondo scientifico nei confronti della vitamina D non si è mai esaurito nel tempo, e così si sono aggiunte tante nuove conoscenze sia sui suoi meccanismi di azione che sulla sua importanza a fini terapeutici in un largo ventaglio di patologie. Nel 1969, è stato scoperto il recettore nucleare della vitamina D (VDR), che ha dato avvio a ulteriori ricerche che ne hanno descritto l’ampia sfera di influenza in oltre 30 tessuti e organi umani. Oggi si sa, quindi, che la vitamina D è un composto liposolubile che comprende un gruppo di molecole che possono assumere 5 diverse forme; le più importanti delle quali, prodotte entrambe dall’irradiazione solare (lunghezza d’onda 290 – 315 nm), sono l’ergocalciferolo di origine vegetale (vitamina D2) e a livello della cute il colecalciferolo derivante dal 7- deidrocolesterolo (vitamina D3). La sua forma biologicamente attiva, denominata calcitriolo o 1,25-diidrossivitamina D, si lega a un recettore specifico ed è in grado di garantire un buon funzionamento del metabolismo osseo, che è poi la sua principale funzione. In breve, la vitamina D, è essenziale per garantire l’assorbimento intestinale del calcio e dei fosfati, la mineralizzazione delle ossa e l’integrità scheletrica non solo in età adulta, ma soprattutto in quella infantile. Queste funzioni la fanno considerare una sostanza organica indispensabile per la vita. L’organismo umano l’acquisisce tramite due canali principali: una dieta varia e regolare (ne sono ricchi alimenti quali olio di fegato di merluzzo, pesci grassi e tuorlo d’uovo) e una corretta esposizione alla luce solare. Tramite l’alimentazione, tuttavia, si riesce a garantire solo il 10-20% del fabbisogno di vitamina D richiesto dal corpo umano. La quota ingerita viene rapidamente assorbita a livello intestinale e distribuita al tessuto adiposo tramite la liberazione in piccole quantitità. Il restante 80/90% del fabbisogno, acquisito per via cutanea, viene prodotto da due reazioni di idrossolazione, sia a livello epatico sia a livello renale: l’azione dei raggi ultravioletti B della luce solare si trasforma da 7-diidrocolesterolo in 3-colecalciferolo (vitamina D3). Le conseguenze di una carenza di vitamina D sono molto preoccupanti e possono manifestarsi a qualsiasi età. La comunità internazionale è concorde nel considerare una condizione deficit quando si è in presenza di un livello variabile tra 10 e 20 ng/ml (in Italia durante il consensus della Società Italiana di Pediatria (SIPPS) e della Società Italiana di Pediatria della Federazione Italiana Medici (FIMP), il deficit grave è stato individuato in un livello inferiore ai 10 ng/ml). Come è ben noto, un deficit estremo può comportare dolori osteo-muscolari, debolezza muscolare e fragilità ossea, mentre i neonati sviluppano il rachitismo: il cranio è molle, le ossa crescono in modo anomalo e hanno difficoltà a sedersi e a gattonare. Ancora più gravi le conseguenze se il deficit non viene corretto per tempo, magari a causa di una iniziale asintomaticità. In questi casi potrebbero insorgere iperparatiroidismo secondario con possibili conseguenze sui processi di acquisizione della massa ossea. Le ripercussioni negative per la salute ossea sono state anche recentemente confermate da un rapporto congiunto tra lo Scientific Advisory Committee on Nutrition (SACN) e l’European Food Safety che hanno evidenziato i rischi a livello osseo, che si correrebbero nel caso di una quantità ridotta di 25(OH) D. Nel 2016 la National Osteoporosis Foundation ha confermato che la supplementazione di vitamina D influenza positivamente l’acquisizione di massa ossea in età pediatrica. Oltre al suo ruolo all’interno del metabolismo osseo, negli ultimi anni numerose ricerche hanno dimostrato che la vitamina D gioca un ruolo fondamentale anche in altre attività conosciute come “extrascheletriche”. Una tra queste riguarda la regolazione della risposta immunitaria. Soprattutto nell’età pediatrica, la vitamina D svolge un ruolo di primo piano per la protezione nei confronti di infezioni batteriche e virali. è inoltre in grado di comportarsi come agente pleiotropico influenzando la severità delle infezioni. Già durante la fase fetale, la vitamina regola positivamente TGF-β1 (fattore di crescita trasformante beta) e IL-10 (interleuchina 10) che aumentano la funzione delle cellule Treg in grado di attivare i linfociti T di memoria. Uno studio più recente ha dimostrato anche un legame tra la presenza della vitamina D e il controllo di malattie come asma o bronchite cronica ostruttiva (BPCO). Evidenza sottolineata anche da una ricerca svolta negli Stati Uniti che ha evidenziato come il deficit di vitamina D costituisca un fattore di rischio per le infezioni alle alte vie respiratorie. La relazione tra questi elementi risulta essere particolarmente significativa nei casi di maggiore severità clinica. Anche per le infezioni alle basse vie respiratorie, un deficit da vitamina D, in associazione con dei bassi livelli di vitamina A, è alla base di aspetti clinici più complicati. Per l’asma, invece, alcuni autori hanno evidenziato come l’ipovitaminosi D durante i primi 10 anni di vita può essere uno dei fattori di rischio per lo sviluppo della malattia cronica. E non solo. Sempre la ricerca medica ci dice che è molto probabile la relazione tra la manifestazione dell’eczema da dermatite atopica (e il relativo punteggio della sua gravità: SCORAD) e un possibile deficit da vitamina D. Lo stesso studio ha ricercato anche possibili correlazioni tra una sua carenza all’interno del siero materno e la successiva manifestazione della dermatite nei figli, anche se i risultati in merito appaiono discordanti e ancora insufficienti. Ciò detto, quello che è indubbio è l’importanza della sua assunzione durante l’età pediatrica per le diverse funzioni fin’ora menzionate. Tuttavia, nonostante le numerose campagne di sensibilizzazione, la condizione di deficit rimane diffusa in tutto il mondo. Uno studio del National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) svolto tra il 2007 e il 2010 rilevò che il 56% dei bambini con un’età compresa tra 1 e 11 anni presentava dei livelli inferiori a 30 ng/ml. In modo simile, anche in Cina, secondo uno studio del Chinese National Nutrition and Health Survey (CNNHS) il 47% dei bambini tra 6 e 11 anni registra ancora oggi un deficit di vitamina D sotto il 20 ng/ml. Durante la seconda e la terza fase dell’infanzia, il monitoraggio dello stato vitaminico è essenziale per la salute del bambino. In questa fase, infatti, è stato confermato che 1 bambino su 2 soffre di deficit di vitamina D mentre 3 su 4 presentano ipovitaminosi nel sangue. La situazione italiana, che risulta in linea con questa casistica, è aggravata dal fatto che il nostro paese è situato al di sopra dei 34°N di latitudine, e per questa posizione non è garantita tutto l’anno una corretta esposizione per la sintesi cutanea di vitamina D. Uno studio, condotto in Iran a una latitudine soovrapponibile a quella della Sicilia, ha dimostrato che i livelli circolanti di 25-idrossivitamina D, diminuiscono di circa 15 ng/ml durante la stagione invernale. Alla luce di questi dati, appare evidente come anche da noi sarebbe necessario adottare un’alimentazione mirata e azioni di profilassi per mantenere livelli adeguati di vitamina D tenendo conto per i bambini è più difficile acquisirla perchè è contenuta in gran parte degli alimenti che i bimbi non solo soliti a mangiare. Il che è ancora peggio nel caso di una dieta latte-ovo-vegetariana o vegana (come confermato da uno studio pubblicato da SIPPS; FIMP e Società Italiana di Medicina Perinatale). La profilassi, allora, resta il metodo di implementazione più efficace in età pediatrica, ma anche durante la gravidanza. La supplementazione durante queste fasi delicate, infatti, ha dimostrato la normalizzazione dei suoi livelli sia nella madre che nel bambino. Gli studi in materia suggeriscono questa terapia fino al primo anno d’età mentre successivamente le indicazioni devono essere personalizzate a seguito di una valutazione dello stato vitaminico del bambino tramite un dosaggio dei livelli di 25-idrossivitamina D. In Italia, la supplementazione è consigliata durante l’inverno sopratutto per i soggetti costretti a una scarsa esposizione solare tra novembre e aprile, a eccezione dei casi gravi in cui la somministrazione dovrebbe essere eseguita tutto l’anno. Si può definitivamente rispondere che la vitamina D fa parte della famiglia degli ormoni? L’orientamento generale è che sia un pro-ormone con alcune specifiche peculiarità.