La pandemia che stiamo vivendo non solo ha sconvolto l’organizzazione sanitaria di moltissimi paesi ma ha messo in luce molti limiti della medicina e le difficoltà che gli scienziati incontrano sulla strada della conoscenza del virus che ne è responsabile. Identificati negli anni ‘30 come virus a RNA con capsula, si vide che negli animali erano in grado di causare malattie respiratorie, gastrointestinali, epatiche e neurologiche negli animali, mentre solo 7 coronavirus potevano provocare negli esseri umani malattie di gravità variabile dal raffreddore comune a gravi infezioni delle basse vie respiratorie, compresa la polmonite fatale, soprattutto nei lattanti, negli anziani e nelle persone immunocompromesse. Questi coronavirus che causano gravi infezioni respiratorie sono patogeni zoonotici, che iniziano negli animali infetti e vengono trasmessi dagli animali alle persone. Il SARS-CoV-2 è il nuovo coronavirus identificato nel 2019 (COVID-19) il quale, iniziando da Wuhan, in Cina, si è diffuso in tutto il mondo attraverso una capacità di trasmissione significativa. Come noto, la diffusione da persona a persona avviene attraverso il contatto con goccioline respiratorie, o anche con una superficie contaminata da goccioline respiratorie. Rapidamente si è scoperto che i pazienti sintomatici, così come i pazienti asintomatici e presintomatici, possono trasmettere il virus. Sulla pelle di tanti poveri vecchi, poi, si è capito che le situazioni a più alto rischio di trasmissione sono le residenze e case di cura per gli anziani. Tali situazioni comportano elevata densità di popolazione e spesso difficoltà a mantenere le precauzioni e i distanziamenti. La quarantena e altre misure di isolamento sono, invece, subito apparse come gli strumenti più efficaci per limitare la diffusione locale, regionale e globale dei focolai e la diffusione dell’infezione. La maggior parte delle persone infette non presenta sintomi diversi da una influenza stagionale, con un decorso lieve: febbre, tosse, brividi o scosse ripetute con brividi, stanchezza, dolore muscolare, cefalea, mal di gola, congestione del naso, nausea, vomito e diarrea, perdita recente dell’olfatto o del gusto, e raramente mancanza di respiro o difficoltà respiratoria. Il tempo di incubazione varia da 2 a 14 giorni dopo l’esposizione al virus. Il rischio di morte da COVID-19 aumenta con l’età e nelle persone con altri gravi disturbi clinici: malattie cardiache, polmonari, renali o epatiche, diabete, condizioni di immunocompromissione o obesità grave. La forma più grave, che porta all’ospedalizzazione e alle terapie intensive, è caratterizzata da dispnea, ipossia e polmonite interstiziale bilaterale visibile radiograficamente. Il quadro può progredire fino all’insufficienza respiratoria che richiede ventilazione meccanica, shock, insufficienza multiorgano e morte. Ad aggravare la prognosi, oltre a varie malattie respiratorie preesistenti, che possono progredire fino alla sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) e morte, ci possono essere altri gravi condizioni: disturbi cardiaci (aritmie, cardiomiopatia e danno cardiaco acuto), disturbi della coagulazione (tromboembolismo e emboli polmonari, coagulazione intravascolare disseminata, emorragia e formazione di coaguli arteriosi), la Sindrome di Guillain-Barré, sepsi, shock e insufficienza multiorgano. Una diagnosi differenziale va fatta nei bambini fra una rara complicanza dell’infezione da SARS-CoV-2, la Sindrome Infiammatoria Multisistemica Postinfettiva (multi-system inflammatory syndrome, MIS-C), e la Sindrome di Kawasaki, le cui manifestazioni cliniche appaiono simili (febbre, tachicardia e sintomi gastrointestinali con segni di infiammazione sistemica) ma le caratteristiche immunologiche sono differenti. Un articolo recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Cell, dimostra che il meccanismo che scatena la grave risposta infiammatoria nei bambini con Covid-19 determina, uno o due mesi dopo il contagio, una vasculite, problemi cardiaci, intestinali e un aumento sistemico dello stato infiammatorio. Inizialmente confusa con la malattia di Kawasaki, questa rara malattia infiammatoria è sistemica e ha un’origine autoimmune. Fare una diagnosi accurata permette di scegliere in maniera più accurata i protocolli per la cura dell’infiammazione sistemica correlata all’infezione da SARS-CoV2 o alla malattia di Kawasaki. Il dott. Paolo Palma, responsabile di Immunologia Clinica e Vaccinologia del Bambino Gesù, e uno degli autori della pubblicazione, suggerisce di trattare, in una fase precoce, i bambini con MIS-C con immunoglobuline ad alte dosi per limitare l’effetto degli autoanticorpi, con anakinra (un principio attivo immunosoppressivo che blocca i recettori dell’interleuchina-1) e con cortisone per bloccare l’infiammazione secondaria a danno dei vasi. Al contrario, nei pazienti pediatrici viene sconsigliato l’utilizzo di tocilzumab (anti-IL6) e di farmaci bloccanti TNF-a. Mentre per i pazienti con la malattia di Kawasaki, i dati suggeriscono la potenziale efficacia di un farmaco che blocca l’IL-17 (secukinumab) per controllare l’infiammazione alla base di questa malattia.
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